Sul lato nord del Corso Diaz sorge il palazzo dei Principi di Sanseverino - oggi Landi - che nato come albergo per forestieri in transito, alla fine del XV secolo fu restaurato e convertito in dimora principesca. Si deve a Tommaso III (1324-1358) la fondazione, 1328, del convento dei Frati Minori Conventuali con l'attigua chiesa dedicata a Sant'Antonio, primo nucleo a valle di Mercato S. Severino. Sotto la signoria di Tommaso V., Conte di Marsico e di S. Severino (1402-1432 ), nel 1412 fu costruita, per autorità del Capitolo Lateranense la seconda chiesa più importante del paese. La chiesa, situata ai piedi del castello, successivamente ampliata e poi intitolata, sul finire del XV secolo, San Giovanni in Parco per accogliere le spoglie dei Sanseverino.

Ma fu per volontà del fratello di Tommaso V., il conte Giovanni (1432-1444), che si diede inizio alla fondazione di un convento per domenicani annesso alla menzionata chiesa. Giovanni, morto nel 1444 e inumato nella chiesa, nel suo testamento lasciò 6000 ducati all'Ordine dei Domenicani, cui fu così devoto, affinché si costruisse un convento nel feudo di Sanseverino. Secondo le disposizioni di Giovanni, i figli avrebbero dovuto costruire il monastero entro tre anni e lo avrebbero dovuto intitolare a S. Severino, titolo che non ebbe mai. Inoltre la fondazione del convento avvenne solo dopo 20 anni probabilmente per la prematura morte di Luigi e per le incombenze amministrative che occuparono Roberto nei primi anni del suo governo".

Nel 1466, infatti, Roberto I (1445-1474), Principe di Salerno dal 1463, obbedendo alla volontà testamentaria del padre, comprò, con la somma di 4000 ducati, un palazzo dove si sarebbe innestato il convento con le sue "pertinentie" in località il "Parco", nel luogo in cui vi era la chiesa, e con i rimanenti 2000 ducati acquistò una masseria in No­cera denominata la "Starza dei corbi" le cui rendite sarebbero servite per il mantenimento dei frati.

In accordo con il Priore Fra Giacomo de Marsico, Vicario Generale della Provincia del Regno di Napoli, Roberto donò ai padri domenicani i beni acquisiti. I religiosi espressero la loro gratitudine ai Sanseverino collocando una lapide, ancora oggi visibile nell'abside delle chiesa di S. Giovanni in Palco". Dall'epigrafe si evince che Roberto I dedicava il convento San Giovanni a glorificazione del santo di cui il padre, inumato nella chiesa, aveva portato ilnome.

Grazie al lascito del Sanseverino, i frati domenicani diedero inizio, alle pendici della col­lina detta "Palco" o "Parco", proprio laddove vi era il palazzo, alla fondazione del mona­stero, la cui consacrazione ufficiale avvenne con la Bolla Apostolica di Papa Paolo II (Pietre. Balbo) del 26 luglio 1466 che concesse a P. Giacomo de Marsico di dare inizio alla fonda­zione con strumento stipulato dal notaio Giuliano Barbarito di Salerno in data 22 novembre dello stesso anno. Nel 1468 il Capitolo Lateranense dichiarò il convento priorato "ob devo­tionem ill.mi principis salernitani acceptamus pro conventu ordinis locum titulo S. johannis insignitum in castro S. Severini, cui instituimus in priorem f. Jacobum de Marsico sub vita re­golari".

Dalla Bolla Pontificia si comprende che, fin dall'epoca della fondazione, il convento, in località "Lo Parco Sancti Severini", era costituito da una <<Principi domum cum ecclesia, campanili, campana, cimiterio, dormitorio, refettorio, claustro, ortis ortalitiis>> e di "neces­sariis officinis pro perpetua habitatione fratrum praedicatorum". Inoltre apprendiamo che il complesso, oltre al palazzo, comprendeva un "giardino murato ... una massaria arbustata ... e diversi colli di monti ... con condotto d'acqua sorgente" proveniente da Pandola. Il con­vento, sito in un luogo piano sotto la falda del monte, distava dal centro abitato "per spazio di un tiro di scopetta".

Della fabbrica del XV secolo rimangono il campanile di piperno annesso alla chiesa. Ala di fattura quattrocentesca è probabilmente tutta la parte basamentale del porticato in­torno al chiostro, le cui volte a crociera sono impostate su grossi pilastri, e la zona seminter­rata del convento. Quest'ultima, alterata dalla ristrutturazione del XVIII secolo, è caratteriz­zata da un spazio sottoposto rispetto alla quota del porticato con volte a vela in tufo ed elementi di piperno. Oltre che dal porticato, a questo vano si accede direttamente dalla strada per mezzo dí un protiro al cui interno è riproposta la stessa scansione della corrispondente facciata esterna con la campata centrale sovrastata da un arco a tutto sesto. Probabilmente quest'ambiente così suggestivo costituiva l'originario ingresso al monastero completamente stravolto e mutilato dalle rampe dello scalone settecentesco.

Poche e incerte sono comunque le notizie relative ai primi due secoli di vita del convento che dovette, ad ogni modo, iniziare subito la sua attività, in quanto, grazie a donazioni rice­vute da ogni ceto di persone, da piccolo centro di vita religiosa divenne comunità proprieta­ria di fondi e beni sempre più cospicui. Tuttavia non ebbe sempre vita tacile risultando vit­tima di numerose controversie e appropriazioni indebite tanto è vero che nel febbraio del 1534, con un severo monito, l'autorità ecclesiastica emanò una Bolla di scomunica contro i coloni, gli agricoltori e gli illegittimi detentori di beni appartenenti al "Monasterium S. Ioan­nis de Parco, terrae S. Severini Ordinis Praedicatorum" invitandoli a rivelare, entro l'arco di tre giorni, i territori usurpati.

A seguito di un Breve di Papa Clemente VIII dell'8 aprile 1593, il 12 novembre 1594 il Capitolo Lateranense locò la chiesa annessa al convento all'Ordine dei Predicatori che già da tempo la officiava con l'obbligo di pagare "mezza libbra di pepe" l'anno. Il com­plesso di San Giovanni in Palco, sottoposto alla Giurisdizione del Capitolo Lateranense, è citato anche nell'elenco dei 68 conventi domenicani presenti nella Provincia del Regno re­datto da Michele Pio nel 1605. L'accresciuta importanza è testimoniata dalle diverse in­dulgenze concesse al convento "in loco ubi dicitur lo Parco" e alla chiesa, sede dal 1580 dell'Arciconfraternita di Maria Santissima del Rosario', l'8 novembre 1609 dai Canonici Lateranensi e da quelle concesse da Alessandro VII per ben due volte, tra il 1655 e il 1658'.

Lo stato temporale dei regolari nella seconda metà del XVII secolo si evince dalla rela­zione del convento, datata 15 febbraio 1650 e sottoscritta dal Priore fra Tommaso Santoro di Sanseverino, inviata alla Sacra Congregazione. Oltre all'elenco dei religiosi, delle entrate e delle uscite e ad alcune notizie sulla fondazione del monastero, la presente relazione com­prende anche una descrizione del convento e della chiesa che, sebbene poverissima, risulta assai preziosa'. Sappiamo così che nel 1650 il complesso conventuale era caratterizzato da un "claustro di sotto" costituito da "24 archi di tufo'' con "officine" tutt'intorno; al cui centro vi era una cisterna con pozzo d'acqua sorgiva. Al "claustro di sopra" corrisponde­vano due dormitori con 16 celle dove abitavano dodici religiosi (sette sacerdoti e cinque conversi). Da ciò si evince che, fin dalla sua fondazione, il convento, il cui primo nucleo era contenuto nel palazzo quattrocentesco, appare caratterizzato da alcuni elementi che rimar­ranno invariati anche a seguito della trasformazione settecentesca della fabbrica. Inoltre ap­prendiamo che, sin dal 1650, il convento, la chiesa e le officine avevano "molto bisogno di riparamento".

La vita dei religiosi nella seconda metà del XVII secolo non dovette essere facile in quanto una serie di calamità naturali colpirono il territorio. Nel 1656 il convento fu investito da un'e­pidemia di peste e risultò tra quelli che ebbero maggiori vittime tanto che fu necessario nomi­nare un nuovo Predicatore Generale'. Lo Stato di Sanseverino rientra inoltre nella nota delle terre rovinate dal terribile terremoto del 1694 che danneggiò e distrusse molti edifici.

Ad aggravare i danni avuti in tutto il territorio per l'alluvione del 1725, contribuirono le torrenziali piogge del 1746, che causarono l'inondazione delle campagne e delle abitazioni per lo straripamento del torrente Solofrana. I danni provocati dalle ingenti piogge offrirono ai frati l'occasione per rammodernare quasi totalmente il convento, ormai "decadente" e poco adatto alle nuove esigenze. I frati avviarono nella seconda metà del XVIII secolo un grandioso programma di rinnovamento del complesso conventuale che assunse una nuova immagine, più aderente allo stile dell'epoca, e corrispondente all'attuale configurazione ar­chitettonica.

1 religiosi forse non avevano preventivato opere così onerose per l'abbellimento della loro fabbrica dai momento che, non disponendo di una solida situazione economica per por­tare avanti i costosi lavori', chiesero alla Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari l'as­senso per ricevere in censo la somma di duemila ducati da ipotecare sulla rendita della mas­seria "la Starza" vicino Nocera. Al 3 giugno 1777 i lavori non erano ancora terminati ma a buon termine: restava da completare alcune camere per renderle abitabili dai religiosità. L'in­tervento di ristrutturazione si protrasse almeno per dieci anni come testimonia un docu­mento del 1785 dal quale apprendiamo che, all'epoca, "il monastero trovasi in fabbrica e ha bisogno di molto legname".

Gli ingenti lavori di rinnovamento riguardarono la demolizione del vecchio dormitorio e la costruzione dalle "pedamenta" di uno nuovo e di altri "accomodi necessari". L'inter­vento del Settecento si sovrappose come nuova veste al vecchio, imponendosi sull'impianto originario per dettare nuovi ritmi e nuove regole. Il precedente, come spesso accadde in quel periodo, venne considerato spregiudicatamente più come pretesto per riaffermare il proprio linguaggio che come "testo materico" da rispettare.

La nuova facciata che si sviluppa tra la chiesa di San Giovanni e il nucleo quattrocente­sco è in tufo giallo a vista. Ad un'alta parte basamentale, ornata da lisce paraste che incorni­ciano le aperture del piano terra, si sovrappone un ordine gigante - 8 colonne doriche - che si sviluppa per gli altri due livelli. All'estremità concludono la facciata due corpi leggermente sporgenti caratterizzati superiormente dalla presenza di due grandi finestroni a tutto sesto, il cui motivo si ripete anche nella zona sottostante.

L'architetto settecentesco riesce a costruire sull'edificio preesistente una sorta di spettacolo progressivo che, partendo dall'esterno, dalla monumentale facciata, conduce al chio­stro, allo scalone e ai corridoi del primo piano. La scala, situata nell'angolo sud-ovest del porticato, si offre a chi entra dall'ingresso principale come sorpresa. Rispondendo alle esi­genze scenografiche del gusto dell'epoca, la scala assume il ruolo di protagonista con il suo gioco di nicchie - alloggio di sculture probabilmente mai poste - e di grandi spazi vetrati in cui interno e esterno, architettura e natura, si confondono. La costruzione dello scalone stravolse completamente gli ambienti sottostanti, sulle cui strutture furono impostate le nuove rampe.

Ancora più della scala colpisce la scenografia dei corridoi dei due dormitori nelle cui vi­suali prospettiche si affacciano le bucature a tutto tondo del terzo livello, formando una sorta di muro traforato. I due corridoi del primo piano, coperti a volta, creano uno spazio ampio e armonioso alquanto suggestivo illuminato alle estremità da due grandi finestroni. Si gene­rano particolari giochi di luce dal chiostro, ai corridoi, ai ballatoi fino agli ambienti del sot­totetto. Gli spazi si compenetrano, quasi a voler catturale più luce possibile, attraverso sin­golari artifici come le "bocche" a conclusione dei ballatoi, il lanternino, vero e proprio pozzo di luce e le bucature ovali.

L'intervento 700esco fu concepito come una "pelle" sovrapposta alla fabbrica preesi­stente per abbellire e ritmare l'edificio secondo un disegno più aderente allo stile dell'epoca.

Ciò trova conferma nella mancata corrispondenza tra la rigorosa simmetria della facciata e gli ambienti interni. In alcuni locali - un tempo celle dei religiosi - si nota come le aperture della facciata non hanno alcuna relazione con la copertura a volta degli stessi, trovandosi spesso in contrasto. Analogamente, al piano terreno lo scalone settecentesco scontra con le aperture del porticato, tanto che in corrispondenza del primo pianerottolo una risulta parzialmente tompagnata.

Si potrebbe infine ipotizzare che, diversamente dal dormitorio occidentale, quello meridionale non fu completamente demolito bensì inglobato e adeguato al nuovo disegno. Que­sta ipotesi scaturisce anche dal diverso tipo di copertura delle celle meridionali - coperte a volta - e di quelle occidentali - con solaio "a trave e soldarini".

Del XVIII secolo è anche la torretta della meridiana, costruita in aderenza al loggiato sull'ala settentrionale del chiostro, di fronte all'ingresso principale, che intensifica il fondale scenico creato dal sovrastante castello e dalla collina.

Le proporzioni della nuova facciata, l'ampio e scenografico scalone, così come le vi­suali prospettiche dei corridoi, richiamano le opere di Luigi Vanvitelli. Tuttavia scono­sciuta è la paternità dell'intervento, sebbene l'edificio continua a essere chiamato dai cit­tadini di Mercato S. Severino Palazzo Vanvitelliano, quasi a voler confermare la presenza dell'illustre architetto nella città. Anche se da più parti sono state avanzate diverse attri­buzione non esiste nessun documento che ne accerti la paternità. Alcuni studiosi attribui­scono l'opera a Luigi Vanvitelli (1700-1773), altri al figlio Carlo. Tuttavia nel copioso epi­stolario di Luigi Vanvitelli non esiste alcun riferimento al convento di San Giovanni in Palco. Considerando anche la data dei lavori, sembrerebbe più verosimile l'intervento di Carlo (1739-1821).

Non è da escludersi tuttavia che Luigi Vanvitelli, occupato in quel periodo alla realizza­zione della Casina da Caccia della vicina Persano abbia dato una sua consulenza sui lavori da farsi, essendo a quel tempo Mercato S. Severino passaggio obbligato della strada che da Napoli conduceva a Persano e che le stesse maestranze impiegate a Persano lavorarono an­che a Mercato S. Severino. L'intervento ad ogni modo testimonia l'importante tradizione artigiana che in passato contò Mercato S. Severino: in buona parte della Campania erano noti i "maestri di muro", gli intagliatori di pietra e i "pipernieri" della zona. In ogni caso, sia dal­l'impostazione generale dell'opera che da un accurato esame dei suoi particolari architettonici, l'architetto autore della ristrutturazione settecentesca appartenne alla scuola vanvitel­liana.

Da uno stato nominativo del 1779 apprendiamo che nel convento, descritto a circa 30 passi fuori dell'abitato, vi abitavano 4 padri, un converso professo e un oblato, mentre da una relazione del parroco di Mercato S. Severino, Don Luigi Guerrasio, risulta che nel 1798 nel convento vi erano 4 religiosi sacerdoti e 4 religiosi laici.

I religiosi, cui tanto costò il rinnovo settecentesco, probabilmente mai del tutto ultimato - la facciata principale non venne mai intonacata - poterono godere ben poco dello splen­dore e della maggiore spaziosità del convento. L'edificio, probabilmente danneggiato dal si­sma del 1806, tre anni più tardi venne chiuso a seguito delle leggi napoleoniche.

LA SOPPRESSIONE DEL CONVENTO E L'INSEDIAMENTO DELLA CASA COMUNALE

Durante il decennio del dominio francese, il convento di San Giovanni in Palco, condi­videndo la sorte degli altri complessi monastici, fu soppresso il 7 agosto 1809. Il 28 settem­bre dello stesso anno Ferdinando Romano, Vincenzo Mari e Bernardo de Falco, incaricati della chiusura, si recarono nel monastero prendendone ufficialmente possesso.

Documento fondamentale per conoscere le condizioni della fabbrica all'inizio dell'Ot­tocento è lo "stato della rendita" all'atto della soppressione del monastero. I verbali, oltre al­l'elenco dei numerosi beni mobili e immobili posseduti dai domenicani', contengono anche un'accurata descrizione dell'intera fabbrica.

Leggendo il documento, datato 4 ottobre 1809, possiamo capire quale era lo stato del monastero al momento della soppressione francese, vale a dire circa venti anni dopo la ri­strutturazione settecentesca.

In linea generale, non si riscontrano grandi difformità rispetto alla situazione attuale. Il convento, "posto fuori dell'abitato ... a due tiri di schioppo da un monte denominato il Palco, alle cui pendici è costruito", si sviluppava intorno ad un cortile pilastrato, con due corpi di fabbrica articolati su tre livelli e una parte cantinata. La scomparsa della pianta, un tempo allegata alla descrizione, certamente non ci aiuta nella piena comprensione del testo, soprattutto quando viene descritta la zona nord-est, la parte della fabbrica maggiormente al­terata.

Nel documento si sottolinea la raffinatezza del "frontespizio ... eseguito su di un disegno d'Architettura la più elegante". La descrizione ricorda, oltre al piccolo atrio d'accesso, accompagnato da due stanze ai lati, il "chiostro di figura quadrata ... selciato con pietre d'itaglio ... circondato da un corridoio a lamia diviso in due braccia" con due pozzi d'acqua sor­gente di cui quello centrale in pietra.

Intorno al porticato, all'epoca, erano distribuiti vari ambienti: una stalla, una "rimessa", un "vasto cellaio", una "cantina da riporre vino", ubicata negli ambienti sottoposti alla chiesa e al coro, e un "locale per diversi usi". Il suggestivo spazio quattrocentesco situato in parte sotto lo scalone, era adibito a cantina, mentre il sovrapposto piano ammezzato a "granile". Nell'angolo nord-ovest del porticato una grande porta conduceva direttamente al giar­dino; nell'angolo nord-est, invece, con una "scala segreta" si accedeva ai dormitori e alla sa­grestia della chiesa.

L'autore evidenzia il "disegno oltremodo magnifico" dello scalone settecentesco, coperto "lamia" con "gradini e passamani ... di pietra d'intaglio". La relazione ricorda i corri­doi del primo piano con le caratteristiche "aperture di figura ovale" che terminano con fi­nestroni dalle invetriate "a coda di pavone", e che, lateralmente, si aprono sulla "loggia".

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